San Massimiliano Kolbe, Martire della Carità

Stefano Di Tondo 12.08.2024  L’odio non serve a niente, solo l’amore crea! Sono solo queste le ultime parole di San Massimiliano Kolbe prima di ricevere l’iniezione mortale nell’infermeria del campo di Auschwitz. Le sue parole hanno portato l’amore in un luogo pieno di morte, come un seme che, per dare vita, deve attraversare il momento negativo, diventare niente per entrare nel tutto. Il martirio è certamente una forma eminentissima di testimonianza cristiana e ci rimanda alle parole di Gesù contenute nel Vangelo scritto dall’apostolo Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici»[1]. È il suono di queste parole a caratterizzare la missione, la chiamata alla santità: mantenere saldo l’affetto di Dio Padre per ciascun uomo nel corso dei secoli.

Padre Kolbe nacque a Zduńska Wola, in provincia di Łódź, da una famiglia molto religiosa e visse in condizioni economiche modeste. Attratti dalla predicazione di Padre Pellegrino Haczela, in occasione delle missioni popolari a Pabianice, decise di entrare nel seminario minore dei Frati Minori Conventuali a Leopoli nel 1907 per poi emettere la professione solenne nella cappella del Collegio serafico internazionale di Roma nel 1914.

Le Lettere[2] scritte nel biennio 1917-1919 sono una testimonianza molto preziosa per comprendere il percorso interiore da cui è maturata gradualmente la sua spiritualità in un tempo di profondi sconvolgimenti sociali. Allo stesso tempo, però, questa prospettiva manifesta una chance per noi, persone di oggi e immerse nelle faccende quotidiane, ma sempre con uno sguardo rivolto all’avvenire. Più volte, infatti, Papa Francesco ha offerto spunti di riflessione sulla nostra attualità, e sul modo di essere fedeli di/a Cristo nel cambiamento d’epoca[3] che stiamo già vivendo.

Durante gli anni di studio e approfondimento di filosofia e teologia, San Massimiliano Kolbe compie una esperienza di fede vissuta nella protezione e nell’abbandono all’azione protettiva di Maria Immacolata. In una lettera scritta a suo fratello Francesco[4], in un momento di particolare difficoltà, egli lo affida alla Vergine Maria insieme alla famiglia nella Santa Messa, in quanto nutre una salda fiducia nella maternità di Maria, e confessa:

«Io pure sperimento incessantemente la Sua particolare protezione, soprattutto attraverso la grazia della professione solenne e della dignità sacerdotale»[5].

La protezione di Maria è una certezza importante, costitutiva, nella preghiera quotidiana in quanto la Madre di Dio non abbandona i suoi figli, ma vive vicino a loro allora come oggi. Non risulterà difficile cogliere l’aspetto più bello di questo modo di essere preghiera; Maria ristabilisce costantemente il legame affettivo con il Signore avendo accettato lei stessa la Parola di Dio Incarnata. Questo suo singolare aspetto, che ha ripercussioni positive nella vita del credente, manifesta in Lei la Porta del Cielo, la Stella del Mattino, il punto di riferimento cosmico per accedere alla Vita Eterna in Cristo. La preghiera non si esaurisce in una mera prassi slegata dalla vita oppure fine a sé stessa nell’attesa che accada un intervento della Vergine Maria, ma rilancia costantemente l’azione di ciascun uomo di fede nel proprio stato di vita: in famiglia, nella vita comunitaria oppure, come fu per lui, attraverso la professione solenne e nel sacramento dell’Ordine. La partecipazione ai sacramenti infatti, aumenta la nostra capacità di amare, in alcuni casi di santità nel modo d’amare «senza limiti»[6] nella verità secondo l’Amore di Cristo che riempie di senso ogni ferita.

In un’altra lettera, spedita a suo fratello Alfonso, padre Kolbe afferma di essere provato da una gioia per «lo zelo che ti anima nella diffusione della gloria di Dio»[7] perché non si è lasciato sopraffare da una gravissima epidemia di indifferenza che, ieri come oggi, può colpire molte persone. Infatti, l’incapacità di avvertire la vicinanza del Signore e, di conseguenza, la presenza degli altri, è un costante fattore di rischio e può causare diffusa insensibilità alla carità.

L’esperienza di fede compiuta da padre Kolbe nella relazione con Maria, in questo arco di tempo, ci consegna una regola di vita molto preziosa; il suo modella tutto l’essere della persona per avvicinarlo a Dio; forgia il carattere, aprendo tutto il cuore dell’essere umano Misericordia del Padre:

«Il libro più bello e più vero dove si può approfondire senza posa quest’amore allo scopo di imitarlo è il Crocifisso. Però tutto questo lo otterremo molto più facilmente da Dio per mezzo dell’Immacolata, perché a Lei Iddio ha affidato tutta l’economia della sua misericordia, riservando a Sé la giustizia, come dice san Bernardo»[8].

Poco prima di conseguire il Dottorato in Teologia, presso la Pontificia Facoltà Teologica di San Bonaventura di Roma, si recò al Santuario della S. Casa di Loreto, il 14 luglio 1919, ove celebrò la messa in Santa Casa, e rivolse le sue preghiere di affidamento e ringraziamento alla Vergine Lauretana. Qualche mese prima, infatti, Papa Benedetto XV benedisse la Milizia dell’Immacolata, fondata a Roma nel 1917 per diffondere il culto e la venerazione del mistero di Maria Immacolata. Il luogo ove Maria fu concepita e ricevette l’annuncio dell’Incarnazione diede sicuramente un notevole impulso al suo apostolato mariano in terra polacca. Subito dopo la visita a Loreto, infatti, Massimiliano Kolbe ritornò prima in patria e, senza trattenere alcuna energia a sé, partì come missionario in Giappone per diffondere il Vangelo.

Il momento in cui manifestare la sua piena santità, sarebbe arrivato dopo qualche anno durante la Seconda Guerra Mondiale. Catturato dalle truppe della Gestapo il 17 febbraio 1941 in Polonia, Padre Kolbe fu deportato ad Auschwitz e destinato a lavori umilianti. È questo certamente il periodo più intenso della sua testimonianza di fede nell’imitazione di Cristo e sino al dono totale di sé. Nonostante i maltrattamenti, le percosse ricevute, la fame, le torture, manifestò l’amore di Dio verso ogni persona anche in un luogo di violenza e morte; e Maria era lì presente con lui e gli altri. Le testimonianze dei sopravvissuti affermano che il suo legame con la Vergine Immacolata rimase saldo nel tempo; la preghiera e i canti mariani sostenevano un briciolo di vita nei prigionieri, una cura materna, nonostante tutto. Possiamo dire, oggi, che l’impulso d’amore ha continuato a battere, non si è arreso totalmente alla morte. Egli continuò a celebrare l’Eucaristia, sebbene fu colpito da azioni coercitive, ed esercitò fedelmente il ministero sacerdotale nel campo di sterminio.

Nulla bloccò il suo zelo apostolico: verso la fine del mese di luglio 1941, di fronte all’ordine del campo del campo di mettere in fila i prigionieri condannati a morire di fame, padre Kolbe chiese di offrire la sua vita in riscatto di un padre di famiglia di nome Franciszek Gajowniczek. Massimiliano Kolbe pronunciò il diritto alla vita di quest’uomo, in quanto padre di famiglia e, pertanto, la sua vita era necessaria ai suoi cari. Il 14 agosto 1941, Padre Kolbe consegnò la vita; le sue ultime parole: «Ave, Maria» rappresentano il sigillo posto sul suo cuore da Maria, la Porta del Cielo, la Stella del mattino che non abbandona mai i suoi figli.

Stefano Di Tondo

Fraternità di Putignano/Santa Chiara

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[1] Gv 15, 13.

[2] Massimiliano Kolbe, Scritti di San Massimiliano Kolbe. Lettere, vol. I, a cura di R. Di Muro - E. Kumka – T. Szymczak – R. Wadach, Edizioni Messaggero di Padova, Padova 2019.

[3] Francesco, Il nuovo umanesimo in Cristo Gesù. Discorso del Santo Padre in occasione dell’incontro con i rappresentanti del V Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, Visita Pastorale a Prato e a Firenze, 10 novembre 2015.

[4] Lettera a Francesco Kolbe, Roma dopo il 26 settembre 1918, op cit., p. 17.

[5] Ibidem.

[6] Lettera a Maria Kolbe, Roma 20 aprile 1919, ivi p. 43.

[7] Lettera a fr. Alfonso Kolbe, Roma 21 aprile 1919, p. 44.

[8] Ivi, p. 45.

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