Il processo a Gesù in una lettura di Tonino Daniele, avvocato e novizio Ofs a San Marco in Lamis
Tonino Daniele 27.03.13 Nessuna vicenda processuale (neanche quella contro i più crudeli criminali) ha suscitato tanto inte- resse. Come ogni processo che si rispetti, l’imputato ha dovuto rispondere ad una accusa: l’aver confessato, in udienza, di essere il Cristo, il Figlio di Dio Benedetto. Una bestemmia per gli inquisitori del Sinedrio, punibile con la pena di morte.
Un processo, però, sommario, senza istruttoria: la sola confessione – sia pure provocata dalle domande del sommo sacerdote e dalla mancanza dell’avviso della possibilità di tacere [nemo tenetur se detegere] – ha reso inutile qualsiasi testimonianza, qualsiasi prova a carico, e quel predicatore ambulante della Galilea passa, in poche ore, dal tribunale al supplizio nella forma più atroce ed infamante: la Croce.
Il Sinedrio, però, formula e sostiene l’accusa, chiede un giudizio direttissimo ma non giudica [“Al mattino, i sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il Sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato”]. Mi sembra di leggere il nostro codice: “quando l’imputato confessa, il pubblico ministero lo presenta direttamente, in stato di arresto, davanti al giudice del dibattimento per il giudizio”.
Si assiste inizialmente ad un conflitto di competenza: Pilato ed Erode ricusano di prendere cognizione dell’affare, Pilato manda Gesù da Erode ed Erode lo rimanda a Pilato, e qui un nuovo interrogatorio.
Questa volta è un interrogatorio di garanzia: uno strumento a tutela dell’imputato. Serve a discolparsi, ma fu un falllimento su entrambi i fronti e non poteva essere altrimenti. Gesù, infatti, non aveva nessuna colpa e guai a pensare, anche solo per un attimo, all’ipotesi di ammettere di essere un impostore. Pilato, dal canto suo, con comprende l’imputazione: per lui è sufficiente che il carpentiere neghi la sua regalità terrena. Il suo cesare era salvo e la figliolanza di Dio, una colpa giudaica e non certamente romana.
Ma Pilato commette un errore, imperdonabile per un giudice: ha manifestato, ancor prima di pronunciare la sentenza, il proprio convincimento [“In quest’uomo non trovo nessuna colpa”]. E il giudice diventa ricusabile. Non si astiene, ma accoglie la richiesta del Sinedrio: pronuncia una sentenza di condanna. Nel dubbio avrebbe dovuto assolvere.
Un processo senza verità: alla domanda di Pilato “Che cos’è la verita?”, Gesù si avvale della facoltà di non rispondere. Non poteva essere altrimenti: a Pilato la Verità gli era dinanzi [“Io sono la Via, la Verità, la Vita”].
E poi la sentenza. Una sentenza già scritta: la condanna inevitabile, e Gesù il Nazareno ne era cosciente [“Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio Tuo”].
Un processo ingiusto, ma a noi sta bene così: senza quel processo non avremmo avuto nessuna condanna a morte, e senza la morte nessuna Resurrezione. A noi capitalizzare quella Morte: aprendo le porte!
Tonino Daniele Fraternità Ofs San Marco in Lamis.
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