Il racconto di una storia diversa, una storia sbagliata
Tonino Daniele 22.7.17 Il caldo di quel sabato pomeriggio era davvero insopportabile, il sole ardente rendeva insofferenti e l’afa spossava fino allo svenimento; il paese sembrava sonnecchiare stancamente nell’attesa inutile della frescura serale. Decisi – così – di trovare sollievo tra le mura spesse della cattedrale (e, magari, consolazione e ristoro in un momento di preghiera), quelle mura che per anni hanno impedito (ed impediranno) al sole di penetrare con la sua calura.
Arrivai con qualche minuto d’anticipo rispetto all’inizio della celebrazione eucaristica e rimasi – come mio solito – in fondo alla navata centrale senza sedermi, ma lo sventagliare delle signore presenti subito mi distrasse; m’indispettì quel movimento ritmico e noioso di ventagli colorati tanto da non riuscire a sentire la voce del sacerdote: ero come assente e desideroso di andare via il prima possibile. Sentivo senza ascoltare; vedevo senza guardare.
<Rispondendo, il re dirà loro: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere> (Mt., 25, 40-42).
Improvvisamente le parole del sacerdote ridestarono la mia attenzione quando, durante l’omelia, citò la frase di un assistente spirituale degli scout che avevo letto qualche giorno prima: <Dal momento in cui si nasce, si vive e si muore ogni giorno. Se si vive bene si allontana la morte, anche se la vita si consuma. E si vive bene se si sta dalla parte degli oppressi>, e poco importa se quel prete, abate benedettino della Basilica di San Paolo fuori le mura, fu sospeso a divinis per le sue idee; le sue parole – invece – centrarono nel segno. Il sacerdote concluse – poi – ricordando un canone della legislazione ecclesiale: <Nutri colui che è moribondo per fame, perché se non l’hai nutrito, l’hai ucciso>, sperando – in cuor suo – di convincere i presenti della gravità del peccato omissivo.
<La messa è finita, andate in pace>, così ci congedò il celebrante e noi rendemmo grazie a Dio, ignari – però – che la messa non era affatto finita; anzi, che da lì a qualche istante sarebbe continuata una “nuova” messa, una nuova storia, una storia – però – sbagliata, tutta sbagliata. La calura iniziava a soccombere alla brezza serale e, prima di rincasare, volevo godere di quel fresco sollievo sedendomi dinanzi al sagrato, sperando, magari, di scambiare quattro chiacchiere con un mio amico sacerdote. Trovai seduto – però – su quelle panchine una persona, un barbone, e subito mi colpirono i suoi occhi che sembravano volermi chiedere qualcosa, ma rimasi sordo alla richiesta; anzi, la sua presenza m’infastidì: <proprio qui doveva sedersi, non poteva scegliersi un altro posto!>, e – così – mi spostai di qualche metro, ma i suoi occhi mi seguirono, li sentivo addosso, sentivo la loro voce sempre più vicina, insistente.
Intanto il sagrato si animò di gente, la stessa che aveva ascoltato poco prima le parole di Matteo, che si era cibata di quel Cristo che, forse, in quel momento ci parlava attraverso gli occhi di quel povero disgraziato, occhi che – increduli – continuavano a guardarsi attorno, a chiedere qualcosa, ma nessuno gli si avvicinò, tutti rimasero lontano a domandarsi chi fosse. Eppure, bastava chiedergli semplicemente di cosa avesse bisogno, porgergli un bicchiere d’acqua fresca e fargli un po’ di compagnia. Cosa rimproverargli se aveva semplicemente pensato di chiedere (e trovare) aiuto dinanzi ad una chiesa; ma noi quel Dio che sicuramente non è rimasto sordo alle sue richieste lo avevamo già tradito ancor prima del canto di un gallo (o, se preferite, per meno di trenta denari) ed il nostro tradimento è stato ancora più grave perché non dettato dalla paura di Pietro o dalla debolezza di Giuda, ma dalla nostra indifferenza e dalla nostra ipocrisia.
Ma noi quel sabato avevamo altro a cui pensare; sentii una signora partecipare a tutto il mondo la sua partenza per le vacanze in un luogo esotico e tutti lì a chiedersi quale fosse e lei, compiaciuta di questa curiosità che aveva suscitato: <vi posto le foto della mia abbronzatura su facebook>; altri ancora concordavano un appuntamento per le prove del coro parrocchiale, raccomandandosi la puntualità: non saranno tollerati ritardi e défaillance; per altri, la necessità inderogabile, in vista di una ricorrenza particolare, era la sostituzione dei paramenti sacri con altri ricamati in oro. Tutto il resto può (e deve) attendere.
Avevo visto e sentito abbastanza; decisi, quasi improvvisamente e senza salutare nessuno, di andare via, di rincasare. Rimasi tutta la sera in silenzio con i miei pensieri, quelli che tolgono voce alle parole e con gli occhi di quel barbone ancora addosso, sempre addosso; inutilmente volevo liberarmene, ma come? Sarebbero bastate delle scuse? Avrebbe capito il mio imbarazzo? Il mattino successivo uscii di buon’ora, declinai anche l’invito degli amici per il solito caffè domenicale: <ho un impegno urgente, non può attendere> e andai alla sua ricerca; lo trovai seduto ancora lì, nella sua solitudine, sulle panchine del sagrato dove aveva – sicuramente – passato la notte. Mi avvicinai e gli chiesi se avesse bisogno di qualcosa e lui, sorridendomi, fece appena un cenno di no con la testa. E’ stata la mia sconfitta definitiva, la mia condanna inappellabile.
Ed allora pensai che quelle mura spesse della cattedrale che per anni hanno impedito al sole di penetrali con la sua calura, hanno impedito anche alle parole di uscire, di trasformarsi, di convertire, di bruciare gli animi. Tutto è rimasto imprigionato tra quelle mura e la Chiesa, con la sua Parola, non è mai “uscita” ed io non posso che sperare che quel barbone possa, un giorno, dinanzi al Giudice Eterno essere il mio avvocato per difendermi dalle mie tante, troppe, ipocrisie ed ambiguità.
Buone vacanze a tutti.
Tonino Daniele
Fraternità Ofs San Marco in Lamis
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