La solitudine di un giudice codardo. Dopo Gesta e Giuda torniamo su Ponzio Pilato
Tonino Daniele 24.2.18 Un’altra notte insonne, segnata da incubi continui; impossibile dipanarne il filo: chi giudica si muove su terreni vischiosi, oscuri, poco illuminati; frequenti gli scivoloni. Avrebbe rinunciato a qualsiasi suo privilegio pur di non dover decidere se quel tale, di nome Gesù, fosse o meno un impostore; ma nessun giudice può sottrarsi alla decisione, al verdetto: ogni sentenza è atto dovuto. Eppure, quella notte – l’ultima prima dell’interrogatorio – pensò solo a come liberarsene: doveva assolutamente lavarsene le mani, nonostante, alle prime luci dell’alba, sua moglie, Procula, tormentata da un sogno, tentò di sottrarre quell’uomo al suo inevitabile ed atroce destino, al suo gravoso supplizio, alla croce che lo attendeva: «E’ innocente: quello che dice è la verità. Lui è la Verità. Non condannarlo a morte, vivrà». Quelle parole lo incupirono ancor più ed in silenzio si ritirò in un piccolo ed angusto spazio del suo enorme e marmoreo palazzo. Rimase solo con la sua inquietudine e ad un tratto, come stordito, lanciò un grido di disperazione, quasi a chiedere aiuto, che qualcuno prendesse il suo posto, ma nessuno accorse, continuò a rimanere solo: solo con la sua solitudine, consapevole che scienza e co-scienza, ragione e misura, non sarebbero state sufficienti per “risolvere il caso”, quel caso: per giudicare serve anche coraggio e a lui questo mancava: uomo privo di cuore.
Intanto, il Gran Consiglio del Sinedrio, che aveva già condannato a morte Gesù detto il Nazareno, attendeva che lui, uomo di legge e di giustizia, ratificasse – senza indugio – il verdetto e crocifiggesse, così, il preteso Messia; ma lui, contrariamente alle aspettative, rinviò qualsiasi decisione, esitando anche ad opporvi un rifiuto. Come avrebbe potuto eseguire una sentenza di condanna a morte senza nemmeno dare la possibilità all’imputato di discolparsi? Ogni condanna è l’epilogo di un accertamento processuale ed esige prove e non fantasie superstiziose; e poi, quel carpentiere non era nemmeno regolarmente incolpato: da cosa difendersi? Di cosa discolparsi?
Messia o mestatore: qual è la verità? Doveva assolutamente uscirne il prima possibile da questa brutta storia, da questa sua croce: la faccenda aveva preso una brutta piega. Doveva pur esserci qualche cavillo, qualche astuzia per evitare di pronunciare il verdetto richiesto, senza soccombere di fronte al Sinedrio, senza arretrare. Decise, così, di fare quattro passi nonostante avesse appena albeggiato e la folla iniziava ad animarsi dinanzi al pretorio. Attratto dall’isolamento e dall’ombra, uscì da solo, com’era sua abitudine; non aveva voglia di parlare con nessuno, voleva solo non pensare, non pensare a nulla, distrarsi solamente; non ci riuscì; e, incamminandosi lungo un viale, ripensò alla parola «Messia»: come riconoscerne la venuta? Ad un tratto, però, sicuro di aver trovato la soluzione, sentì svanire la sua inquietudine e ripeteva tra sé: «Se l’unica colpa del Nazareno è quella di proclamarsi “Figlio di Dio”, allora l’autorità romana non c’entra niente: è “cosa” loro; e poi, l’imputato è un galileo: dovrà giudicarlo Erode, tetrarca di Galilea: è questione preliminare di giurisdizione».
Falsa partenza: la formula rituale non suggestionò né Erode né i sommi sacerdoti: «si è proclamato Re dei Giudei, vuole usurpare il potere a Cesare» e, così, Erode ricusò di prendere cognizione dei fatti.
Con la morte nell’animo, dispose d’incontrare il Nazareno; interrogarlo e scovare la verità: proposito ultimo di ogni processo, tormento per ogni inquisitore chiamato a trovare verità nelle ipotesi. Entrò di corsa nel pretorio e, stranamente, si accorse che quell’Uomo era già lì ad attenderlo: impassibile, quasi rassegnato al suo atroce destino ed impaziente di adempierlo. Anche Gesù era solo; ma, la solitudine di Dio è parziale e provvisoria, la sua, definitiva e totale. Si avvicinò quasi a toccarlo ed ecco che vide nei suoi occhi un Mistero che lo inquietò; per un attimo vacillò. Capì in quell’istante che, nonostante l’innocenza, quell’Uomo doveva necessariamente morire in croce. Gli sfuggiva qualcosa però: ogni castigo è conseguenza di un delitto, ogni pena di una colpa. Paradossalmente a sfuggirgli era proprio la Verità: che quella morte avrebbe dato un senso alla storia, a quella storia, che quella morte avrebbe “garantito il Messaggio Divino”, che la salvezza degli uomini dipendeva proprio da quella croce e che lui nulla avrebbe potuto per evitarla.
Improvvisamente un brivido lo percorse tutto: si ricordò delle parole di sua moglie: «E’ innocente: quello che dice è la verità. Lui è la Verità. Non condannarlo a morte, vivrà».
Il sudore iniziò ad imperlargli la fronte, la gola gli seccò, non riusciva più a stare in piedi, le gambe gli tremavano e sedendosi, d’istinto si rivolse a Gesù: «che cos’è la verità?»; inutile rispondergli: non avrebbe capito e, così, il silenzio dell’imputato segnò la sconfitta del Procuratore romano.
Tragico destino il suo: come stare sereni quando bisogna prendere una decisione che quale che sia, farà colare sangue puro, innocente? Intanto, il colloquio con quel giovane lo angustiò enormemente; ripiombò nell’inquietudine e, spinto dalla disperazione, davanti alla folla inferocita, dichiarò l’innocenza dell’imputato: «E’ innocente, non trovo in lui nessuna colpa», con la speranza di dissuaderla e liberare il Nazareno; ma la trovata non sortì l’effetto sperato: non riuscì ad essere ricusato e la folla tumultuante chiedeva con più insistenza una sentenza, ed una sentenza alla pena capitale.
Crebbe la sua solitudine e, con essa, la paura. La voce della folla (e della storia) prevalse sulla voce della sua coscienza: «consegnò loro Gesù perché venisse crocifisso». Gli mancò il coraggio del grande gesto.
La sera che precedeva la Pasqua, un servo gli annunciò che un tale di nome Giuda, discepolo della prima ora del condannato, chiedeva insistentemente di essere ricevuto e di avere, per lui, degli oggetti appartenuti al Nazareno. Contrariato, ordinò al servo di allontanarlo: aveva già dedicato troppo tempo a quella vicenda e voleva solo dimenticarla in fretta. Il discepolo andò via senza prima – però – lasciare per il Procuratore un calice; Pilato, avutolo tra le mani, ordinò al servo di versargli del vino ma, assaggiandolo, si accorse di un sapore strano… come di sangue. Capì in quel momento cosa fosse la Verità.
Tonino Daniele
Fraternità di San Marco in Lamis
.