‘I suoi faggi e i suoi abeti lambiscono il cielo’. Ricordando le stimmate di Francesco.
Tonino Daniele 16.9.13 I suoi faggi e i suoi abeti lambiscono il cielo. E’ un monte sacro. Eccelso: le sue viscere bruciano fuoco. Quello dello Spirito Santo. Francesco vi si ritirava “desiderando occuparsi solo di Dio e purificare il suo spirito dalla polvere del mondo che eventualmente l’avesse contaminato nel suo stare con gli uomini” (FF., 479). Luogo di raccoglimento e silenzio: atto ad orazione e a penitenza. Gli fu donato, per la salvezza della propria anima, da tale Messere Orlando di Chiusi di Cosentino, nel 1213, che incontra, non casualmente, nel castello di San Leo in Montefeltro durante la festa per l’investitura di un nuovo cavaliere.
Vi si svolge un torneo di menestrelli, ma è il “menestrello di Dio” a rubare la scena: cattura l’attenzione di tutti; è un Angelo di Dio che parla. Propone per tema della sua predica questa parola in volgare: “Tanto è quel bene ch’io aspetto, che ogni pena m’è diletto”.
E’ la resurrezione per il ricco uomo di Toscana che già “avea udito della santità e de’ miracoli di santo Francesco, sì gli portava grande divozione e grandissima voglia di vederlo e d’udirlo predicare (FF., 1897).
Francesco non perde tempo: brama l’Incontro. Decide – così – di trascorrervi un tempo di penitenza: la quaresima di San Michele Arcangelo. Ha inizio il viaggio verso la “sua” Gerusalemme, anche lui in groppa ad un asinello, ma senza ingressi trionfali. “Nel crudo sasso intra Tevero e Arno” vi si reca insieme a pochi suoi compagni. Non manca frate Leone.
Dimora, da solo, in una cella: quella del faggio commissionata al suo benefattore. Null’altro vuole, se non un po’ di pane ed un po’ di acqua: cena ancor più frugale di quella del suo Atteso.
Subito iniziano i segni del dramma: è il “suo” Getsemani. Dio gli rivela che il monte è spezzato da grandi fessure e tanto avvenne nel momento della passione del Signore, “perché quivi tutto si dovea rinnovare”.
L’ansia cresce e, con essa, solitudini e tentazioni. Qualcuno vuole, costi quel che costi, impedire l’Incontro; ma, il male soccombe: “Dio non lascia mai tentare li servi suoi più che possono portare”. E, piuttosto che rovinare Francesco giù dal precipizio, la dura roccia senza appigli diventa cera liquida tanto da cavarsi secondo la fattura del suo corpo e accoglierlo. Francesco è salvo, ma stremato dalla lotta. Un ultimo sforzo: la meta – ormai – vicina.
Nessun dubbio su quanto di lì a poco sarebbe dovuto accadere: rivivere la passione del Signore Gesù Cristo; ad Esso “conformarsi nelle afflizioni e dolori”. Lui, Francesco, l’attore principale.
L’Incontro, annunciato da un Angelo del Signore: <preparati, Francesco, è giunta l’ora tanto attesa e desiderata>. Ed ecco che improvvisamente il monte s’infiamma tutto; erutta fuoco. Bagliori inondano tutte le valli intorno. Tutto splende. Acceca. E Francesco è fuoco vivo: fuoco d’amore divino. Vide venire dal cielo un Serafino con sei ali “risplendenti e affocate” e, in esso, Francesco, riconobbe l’immagine del Cristo, del Cristo crocifisso. Ed ecco il suo corpo trafitto.
<Sarai in tutto uguale a me>: Cristo non si accontenta di sfiorare il corpo di Francesco, vuole entrarci dentro. Ci entra. Lo devasta non solo spiritualmente. “Non sono non più io che vivo, ma è Cristo che vive dentro di me” (Gal., 2, 20).
Immancabili i segni. Segni di dolore e gioia infinita: le ferite nelle mani e nei piedi, il segno dei chiodi e sul costato una ferita di lancia, la quale “spesse volte gittava sangue”. In tutto uguale a Cristo: fu il primo tra i mortali ad essere “segnato”.
Fraternamente consigliato, Francesco partecipa della visione serafica e delle stimmate i suoi compagni; si riserva – però – un segreto. Al solo frate Leone consente l’amorevole medicazione quotidiana delle sante piaghe “ognindì eccetto che dal giovedì sera in sino al sabato mattina”: sono i giorni della sua passione, il suo triduo pasquale.
Ma dove tutto è iniziato, lì doveva finire. Ora più che mai: è l’ora del ritorno alla Porziuncola. Vi entra da vincitore. Trionfante.
Molte le testimonianze della verità delle stimmate: alcuni le vedono, altri le toccano. Così le fonti: “una volta (frate Rufino), grattando le reni a Santo Francesco, in vero istudio egli trascorse con la mano e mise le dita nella piaga del costato, di che santo Francesco, per lo grande dolore che sentì, gridò forte: <Iddio ti perdoni, o frate Rufino, perché hai fatto così?>”. Non manca neanche la testimonianza di un Papa: Alessandro IV, “predicando al popolo, dove erano tutti i cardinali (tra li qual era il santo frate Bonaventura ch’era cardinale), disse e affermò ch’egli avea veduto co’ suoi occhi le sacre sante stimate di santo Francesco quando egli era vivo” (FF., 1941).
E San Tommaso? E’ Gregorio IX: <se non vedo non credo>. Francesco gli apparve, mostra il costato e chiese un vaso; lo porse sotto la ferita ed ecco riempirsi di sangue ed acqua. Non dubitò più; “ma beati quelli che pur senza vedere crederanno” (Gv., 20, 29). Eretico chi continua a dubitare e tanto per bolla di Niccolò IV.
I segni produrranno sempre i loro frutti. Per l’eternità: e quanto del colloquio con l’Atteso segretò durante la sua vita, decise di rivelarlo, dopo la sua morte, all’ultimo dei suoi fratelli in Cristo. Le fonti parlano di un santo frate: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli” (Mt., 12, 25). All’innominato San Francesco partecipò il grande segreto: le parole che il Cristo crocifisso gli rivolse nel mentre la sua carne soffriva il dolore della passione: <Sarai un altro Cristo: in umiltà, potenza e misericordia. Ti sia concesso ogni anno, nel giorno della tua morte, l’ingresso in Purgatorio e tutte le anime a te care che lì troverai, “ne tragghi in virtù delle tue istimate le quali io t’ho date, e menile a paradiso”.
Ancora oggi, gli eredi di quei frati che il Santo lasciò sul monte della Verna ricordano l’incontro, al mattutino con l’antifona “O martyr desiderio” e a vespro quell’altra “Caelorum candor”, “per la ragione che in queste due antifone si fa menzione dell’apparizione del Serafino”.
Tonino Daniele Segreteria e Comunicazione Ofspuglia.
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